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Foto ritoccate: riscopriamo il bello di raccontare l’autentico


Posted by cristina on 04 ago 2017 / 0 Comment
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Questo è un tema che sento particolarmente vicino che in effetti è oggetto di grande attenzione social-mediatica negli ultimi tempi. In tanti profili di blogger, influencer e social star, legati al mondo del travel (ma ormai non solo perchè il viaggio è patrimonio di tutti), si assiste a un proliferare di foto e immagini da cartolina talmente perfette da sembrare finte. Ecco, appunto. Fino a dove si spinge il confine tra il racconto di un luogo attraverso una fotografia e l’ostinata ricerca della perfezione a caccia di like e condivisioni? Il mio non è un post accusatorio ma una riflessione verso chi come me viaggia e racconta di viaggi e sa che le proprie storie, fatte anche di immagini, rappresentano testimonianze di luoghi, eventi, persone incontrati in giro per il mondo che lettori interessati cercano per organizzare la propria esperienza o come semplice fonte di ispirazione.

E’ vero, noi travel blogger siamo (o dovremmo essere) prima di tutto viaggiatori entusiasti. Coltiviamo la nostra passione e siamo quindi portati ad essere positivi e a voler raccontare la bellezza dei luoghi che visitiamo trovando l’angolazione migliore, il particolare da immortalare, l’inquadratura che meglio esprime un luogo. E’ altrettanto vero però che dovremmo cercare di restituire un ritratto realistico dei posti che visitiamo, così che un lettore, quando ci va, possa ritrovarsi con la descrizione e le foto viste on line. Quest’ultimo passaggio, per molti influencer si è perso a favore di una grande concentrazione verso l’estetica della fotografia da un lato e la ricerca dell’engagement sui social dall’altro. Ecco che allora sulle bacheche di molti appaiono scatti talmente artefatti che per quanto piacevoli all’occhio, certo non restituiscono la realtà di quel luogo.

Un tempo il web, ancor di più con l’avvento dei social network, era il luogo dove trovare l’autenticità che solo chi era già stato in un posto poteva restituire: niente foto patinate da copertina, niente immagini plastificate da catalogo agenzia. Quelle si sapeva che erano finte, pubblicate così al solo scopo di inv0gliare  i clienti ad acquistare il pacchetto di viaggio o i lettori a comprare il giornale. Se uno voleva controllare com’era davvero una meta, una città o una spiaggia apriva Tripadvisor o il Facebook degli albori o qualcuno dei travel blog pionieri e cercava. Non c’erano ancora app, filtri o artifici vari. Al massimo si poteva saturare un po’ l’immagine o schiarirla. Oggi questo processo di imbellimento “chimico” si è trasferito al web ed è diventato difficile distinguere la realtà dall’artificiosità. L’uso del filtro è ormai sdoganato e ab-usato.

Il problema però è un altro e rappresenta la vera diversità tra il passato” off line” e il presente digitale: quelle immagini sono direttamente collegate a una persona, a un nome e un cognome, a un account in carne e ossa che ne è il proprietario e che è riconosciuto come tale dalla sua community di follower. E più sei seguito, più aumenta la tua pervasività e soprattutto la tua credibilità: i tuoi lettori ti seguono e imparano ad avere fiducia in te per i contenuti che proponi loro. A vedere in qualche modo il mondo con i tuoi occhi. Contemporaneamente cresce (o almeno dovrebbe) il tuo senso di responsabilità verso tali lettori. Che cosa gli stai raccontando? Che in quel posto le case sono tutte bianche e blu, perfettamente intonacate quando invece hai isolato un angolo di città e pasticciato con i colori? Oppure che sei di fronte a un mare dai mille toni di blu che in realtà di blu lì c’è solo il colore del tuo copricostume? O ancora, nella sua derivazione peggiore, che lo skyline della città che mostri non è quello della città che hai geotaggato perchè non era abbastanza perfetto o perché tu in quel posto in realtà non ci sei mai stato ma ti hanno pagato per pubblicare quella foto? Alcuni casi di cronaca recenti hanno raccontato qualche caso eclatante di “truffa” digitale su cui è meglio stendere un velo pietoso.

La questione non è certo quella di editare le immagini: la fotografia è fatta di postproduzione, da sempre. Un conto però è intervenire sulla luce, intensificare i contrasti, tagliare la foto in modo che la composizione sia armonica e gradevole. Un altro è quello di restituire un’immagine profondamente diversa dal reale per puro scopo estetico o per ottenere consenso. Anche a me piace, come a tutti, ammirare scatti di qualità, fotografie d’ispirazione su un posto che vorrei visitare o che magari non conoscevo. Mi aspetto però che quello che vedo io lo possa ritrovare nel momento in cui metto piede io stessa in quel luogo. Lo devo poter riconoscere. Altrimenti la sensazione è quella di essere stata “ingannata”. Credo che non ci sia cosa peggiore per un travel blogger che sentirsi dire da un lettore: ho visto le tue foto ma quando poi ho visitato quella meta ho trovato una realtà diversa.

E’ vero, la tentazione di abbellire le foto è di tutti, ma il troppo stroppia. Spesso ci dimentichiamo che il nostro vero obiettivo dovrebbe essere raccontare l’autentico, seppur dal nostro punto di vista personale. Così come per le parole, anche le immagini dei nostri post dovrebbero restituire la nostra visione di quel luogo, senza tuttavia alterarne le caratteristiche o la natura. Non lasciamoci tentare dal Dio Like, non ricerchiamo sempre la perfezione assoluta, pensiamo sempre a chi stiamo raccontando qualcosa e a quello che stiamo trasmettendo.

Raccontare una meta è una responsabilità che ci dobbiamo ricordare di avere. Non è un gioco aritmetico: foto ritoccata = + interazioni = + collaborazioni retribuite con gli Enti. Perchè poi, in molti casi, si tratta di questo: di vendersi. Perché invece non proviamo a riscoprire quello per cui siamo nati, sono nati i blog e quello per cui ci cercano i lettori? Il racconto dell’autentico. Con le sue imperfezioni: pioggia, case non perfettamente colorate o allineate, persone non in posa plastica ma nella loro dinamica reale. Non pieghiamo la realtà al digitale, torniamo a raccontarla per quello che è davvero. Con qualche ritocco in meno e un po’ più di onestà narrativa.

 

 

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